La tematica del dolore, declinata in modi diversi (come tormento, ingiustizia, sopruso, imposizione...), è spesso presente nel lavoro di Ruggero Maggi, la ritroviamo anche in altre opere che, accanto alle rose, espone allo Studio 10 di Vercelli, la maggior parte delle quali sono legate tra loro anche da altri due elementi: la luce e l’ombra. La luce è quella del neon, dei led, del laser o della lampada di Wood. Bianca o colorata, essa disegna linee, invade lo spazio, modella, fa affiorare passaggi sotterranei e come un’onda si muove tra le cose per svelarne i segreti o per caricarle di nuovi significati. Essa è il punto d’incontro tra il mondo reale e il pensiero, è la soglia tra la sostanza e l’essenza, ma è pure lo strumento che forgia e scava. È il caso, ad esempio, di Tutti i colori del caos (2001) – una tavolozza ottenuta incidendo con un taglio laser una vecchia scheda elettronica - e di Identità cancellate (1985), una light box dove una linea di luce bianca e fredda si insinua tra due blocchi di serizzo, resti di qualche cornicione andato in frantumi, per illuminare un interstizio in fondo al quale c’è una vecchia foto in bianco e nero. È il ritratto di una famiglia “cancellata”, così suggerisce il titolo, da qualche tremendo cataclisma. Come una lapide senza nomi e senza tempo, quel rettangolo di macerie è il simbolo di un dolore che, al contrario, non si può estinguere e di un destino che coglie di sorpresa e il più delle volte si dimostra iniquo.
Ma, se la luce è l’elemento che cattura l’occhio, pure le ombre hanno qualcosa da dire, anzi, come scrive Alda Merini, hanno un suono: “Ecco l’unica cosa che mi piacerebbe veramente di tenere in pugno, il suono dell’ombra”. I grigi nella parte superiore sono lugubri e pesano come una cappa, con il loro timbro cupo opprimono almeno quanto le pietre, mentre il chiaroscuro lievemente ingiallito della fotografia risuona dolce ed evoca il calore degli affetti, sussurra teneri ricordi e commuove. Completamente differente è il mood del Peccatore casuale (1995), nel quale un laser proietta una sottile croce rossa al centro di un antico breviario francese del 1871, opera di Alphonse de Liguori e tutto dedicato alla pratica d’amore verso Gesù. Ogni capitolo, affrontato tematicamente, è il tentativo di illuminare il cammino per progredire nell’amore del prossimo ed esplora tutte le qualità della vita morale: dalla clemenza alla carità, dalla pazienza alla forza e così via. Queste pagine sono state però oltraggiate da una mano ignota che ha tracciato un disegno “peccaminoso” su una pagina bianca. Un fallo, su cui è vergata la scritta “cultura”, si protende fino a “ferire” idealmente il cuore di Cristo stampato nella pagina accanto, che risulta però strategicamente rovesciata. Poco più sotto, la scritta “manicomio”, vergata con inchiostro nero, connota ancora meglio il foglio dissacrante, insinuando la follia come elemento demoniaco e corresponsabile dell’attacco blasfemo. Il libro, recuperato in questo stato da Ruggero in una bancarella dell’usato, è ora posizionato su di un leggio che lo accoglie come fosse una partitura da leggere e da ascoltare. La croce luminosa, che si estende sulla parete e sul pavimento e che nelle sue coordinate ortogonali unisce visivamente il sacro (il cuore di Gesù) e il profano (l’organo genitale), il cielo e la terra, è un estremo tentativo di esorcizzare quanto di immorale è stato aggiunto in quelle pagine (e, per estensione, nel mondo) e di restituire loro la rassicurante sacralità originaria. Troppo tardi: ormai il dolo è fatto e nulla può tornare come prima. Un’ombra mefistofelica si è insinuata tra l’uomo e Dio, portando inevitabilmente con sé il seme del dubbio e della ribellione.
A proposito di demoni, Hell (inferno) è la scritta che campeggia su un grande bidone di latta, tutto ammaccato (Arida acqua, 1998) e ancora impregnato di un leggero e diffuso odore di petrolio, anche questo trovato e raccolto da Maggi ai bordi di una strada. È quello che resta – visivamente pietrificato in un materico craquelé - del noto marchio “Shell” dopo la decurtazione della lettera iniziale. Un emblematico gioco di rimandi tra gli spietati simboli del potere economico e le leggendarie credenze di un popolo, tra le tentazioni del denaro e il bisogno di racconto, tra le luci e le ombre di un mondo che crede solo nel profitto e dimentica gli scempi, lo sfruttamento e le conseguenze. Intanto, il suono costante di una goccia d’acqua trasforma il bidone di petrolio (“olio di pietra”) in un sommesso richiamo: “può una goccia erodere ciò che l’aridità umana trasforma in un inferno fossile?”.
“Il corpo getta un’ombra, l’anima luce” ha scritto Nietzsche nei Frammenti postumi (1869 - 1889) e alla forza persuasiva della luce che affiora dall’ombra, si affida l’installazione Velo d’ombra (2001). Dieci sagome, alte quasi tre metri e rivestite con il burqa, si stagliano sottili e totemiche nella penombra della
stanza. Sono presenze silenziose, inquietanti e enigmatiche che concentrano la loro essenza nella proiezione di luce bianca - frantumata in tanti piccoli punti - che filtra dalle sottili feritoie dei loro burqa. Un velo d’ombra può far risaltare la bellezza nascosta e renderla particolarmente seducente, ma cosa accade quando è imposto? “Come ogni materia che separa – argomenta Ruggero Maggi - per quanto sottile ed intangibile (è devastante la violenza psicologica), il risultato si trasforma sempre in un limite che delinea campi visivi e d’azione in cui l’imposizione affievolisce la libertà. L’interno e l’esterno subiscono modifiche che condizionano sia l’individuo che la collettività. Forse soltanto acuendo al massimo la propria sensorialità si può tentare di infrangere quel distacco che ci rende muti osservatori”.